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La deprecabile filosofia di un tunnel

Perché ridi? Per quale arcana, indecifrabile ragione, il pallone che, con ogni probabilità, per puro caso, ha involontariamente varcato quell’arco sgraziato e disconnesso creato dalle mie gambe, ti crea giubilo? Probabilmente avrebbe definito così lo scherno conseguente ad “un tunnelPier Paolo Pasolini, amante del calcio e studioso della psicologia che ne derivava, mettendosi nei panni del malcapitato che lo avesse subìto.

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E’ un pensiero che, seppur meno articolato e poetico, ognuna delle vittime di un “tunnel” ha avuto di conseguenza al gesto espresso, offeso nell’intimo delle sue capacità, deriso da un avversario malandrino e senz’anima, in grado di sopraelevare le proprie capacità a discapito di un uomo la cui colpa è stata soltanto quella di farsi prendere dalla foga e, nell’affrontarlo, soltanto per qualche frazione di secondo, aprire un pertugio largo quanto una sfera dalla circonferenza di circa 70 centimetri, quel tanto che basta a passare alle proprie spalle, tagliandolo fuori da qualsiasi possibilità di recupero, se non falloso e, già che c’è, ai limiti del cartellino il cui colore dipende dal savoir-faire, quella complicata ma necessaria qualità che un bravo professionista dovrebbe saper affinare lungo l’arco della sua carriera (per carità, non parlate più di archi!).

Preso sul tempo da una giocata sopraffine, in una frazione di secondo diventi un somaro buono solo per la serie C, mentre l’altro è uno che ci sa fare col pallone, un giocatore che, a quel punto, potrebbe addirittura cambiarti le partite. La velocità di giudizio di conseguenza ad un gesto tecnico di tale spessore può pesare come un macigno, da ambo le parti. Chissà cosa avrà pensato Gino Ferioli, portiere del Grosseto, nel lontano 1984, quando, durante un’amichevole contro il Napoli dell’appena acquistato asso argentino Diego Maradona, in un’azione difensiva è riuscito a liberarsi di quello che diverrà il migliore calciatore al mondo, addirittura con un tunnel, lui, un portiere!

Diego Maradona Fans

«E’ proprio così – disse Ferioli – mi ricordo bene di quella sera, conservo ancorai giornali (La Gazzetta dello Sport, Il Mattino), tutti dettero grande risalto alla cosa.Eravamo intorno al 20′ del primo tempo e Fugalli appoggiò un pallone indietro, un po’fuori area, verso la linea di fondo. Premetto che a me è sempre piaciuto uscire e giocarla palla coi piedi». «E allora uscii dalla porta e con la coda dell’occhio vidi un giocatore del Napoli che veniva a contrastarmi, mi venne naturale di provare a dribblarlo on l’esterno del piede. Ne venne fuori un tunnel molto bello. Quel giocatore era Maradona.L’arbitro era Bianciardi di Siena e ricordo che tutti ridevano,allora Maradona venne verso di me e mi disse: `Malo sai che io sono el Pibe de Oro?‘». «Da quel momento ad ogni calcio di punizione – prosegue Ferioli – da lontano Maradona non perdeva occasione per dirmi:`Ora ti segno, ora ti segno’.Si vedeva che gli giravano e poi finì che a forza di aspettare i tiri di Diego mi segnò Bertoni, sempre su punizione.Era il primo tempo e in sostanza la partita finì così, ma già all’uscita dal campo io gli chiesi scusa e gli dissi che non volevo irriderlo. Lui capì e ci abbracciammo».

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E come spesso capita in queste storie, dove un colpo di genio, di qualsiasi genere, purché sia stato efficace, ti “marchia a fuoco” per sempre, fino a renderti schiavo di quel gesto, soprattutto se la carriera non ti ha concesso di essere ricordato per qualcos’altro. Lo stesso Ferioli ammise: “Sinceramente non ne posso più di raccontarlo. E’ da quando l’ho fatto che tutti mi chiedono soltanto del tunnel… La mattina dopo iniziarono a telefonarmi giornalisti di tutta Italia, dal Mattino di Napoli alla Gazzetta dello Sport. Mi ritrovai persino in prima pagina sulla Gazzetta! Forse i giornalisti non si ricordavano chi era Gino Ferioli, ma ero un portiere che aveva una lunga esperienza da professionista e fu normale per me fare il tunnel. Neanche mi resi conto che lo stavo facendo a Maradona: poteva essere chiunque anche Penzo o Bagni. Fu un gesto istintivo, lo facevo spesso anche nelle partite di allenamento. Mi è rimasto un ricordo bellissimo di quell’incontro legato al boato della gente: la tribuna esplose“.

Diego Maradona, Castel Del Piano, Italy

D’accordo che da una carriera calcistica ci si aspettano traguardi ambiti, vittorie, conquiste prestigiose, vestire la maglia della propria nazionale, fare gol all’ultimo minuto o parare un rigore decisivo ed essere consegnato agli annali, ma meglio essere ricordato come “il portiere di una squadretta delle serie minori che riesce a fare un tunnel al Pibe de oro“, piuttosto che affondare nell’anonimato.

Nella vita bisogna accontentarsi. E scusate se è poco, “Ça va sans dire“.

Alcune immagini dell’amichevole in questione:

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Legende, verità e aneddoti dal film “Fuga per la vittoria”

Nel Suffolk, sulla UK east coast, nel lontano 1980 ci si godeva una bella realtà calcistica, di rado da quelle parti. L’Ispwich Town di Mister Bryan Robson, nei suoi anni più verdi, rimpinguava la scarna bacheca del piccolo club inglese con qualche trofeo di prestigio, cosicché pubblico e opinione pubblica gliene renderà merito. Così come nessuno dimenticherà quanto fossero noiose le sue riunioni prima di una gara, oppure quelle improvvisate subito dopo gli allenamenti, quando una pinta “bionda” ti aspetta al pub, assieme a qualche disco o sulle note di qualche “garage band” dal vivo, e tu li lasci ad aspettare mentre lui parla e non la smette. Ma nella primavera di quel 1980 stava per accadere qualcosa che sarebbe andato al di là di qualsiasi risultato sportivo. Mister BB si presentò negli spogliatoi con un mister X, uno di quegli omuncoli minuti, eleganti e insignificanti allo stesso tempo, ma che sanno il fatto suo. Comincia a parlare, dopo che il coach lo introduce senza andar troppo per il sottile. “Mi chiamo Freddie Fields, sono americano, e sono qua per scritturare alcuni di voi per girare un film”.

Fuck you, coach!” avranno pensato i “boys”, tutti a ridere e a pensare che quella fosse l’ennesima trovata per ricamarci su una morale, qualcosa costruita per tirar fuori un bel predicozzo come era solito fare Mr.Robson. I fatti diranno altro.

Io lavoro per la Paramount e quest’estate gireremo un film dove il calcio sarà protagonista. Per questo abbiamo pensato a qualcuno di voi. Le riprese del film inizieranno ai primi di giugno, quando il campionato sarà terminato e voi sarete liberi da impegni. Lo gireremo in Ungheria e ci vorranno al massimo cinque settimane”.

L’affare si fa serio. Non c’è più nulla da ridere, il tizio sembra fare sul serio. Prima che Kevin Bettie, capitano carismatico, si offrisse per porre la prima domanda, il tipetto a stelle e strisce si ricorda un altro, insignificante, particolare.

Ah, dimenticavo. Protagonisti saranno Sylvester Stallone, Michael Caine, Bobby Moore e Pelè”.

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Non riesce a porre nemmeno l’accento sulla “e” di Pelè, che si sovrappongono urla del tipo “ehi tu,prendi me, io faccio al caso tuo, sono un attore nato!” e giù di lì a cerare di convincere il responsabile del casting di quello che sarà “Fuga per la vittoria” a scritturare uno piuttosto che un altro di quel gruppo di ragazzotti eccitati e increduli all’idea di diventare un divo di Hollywood. Alla fine la scelta ricadrà sulle “facce da schermo” che più lo ispirarono, e cioè su John Wark, Russell Osman, Kevin O’Callaghan, Robin Turner e Laurie Sivell. Si aggiunsero poi anche il portiere Paul Cooper che dovrà fare da controfigura a Stallone (che non ha mai visto un pallone da calcio in vita sua) e capitan Beattie che dovrà fare da controfigura a Michael Caine.

Location ambigua quella scelta per le riprese: Budapest, dove verrà scelto anche il campo dell’MTK Budapest per giocare la partita tra i prigionieri e le milizie naziste delle truppe germaniche, che nel film viene indicato come uno stadio parigino. In effetti era necessario trovare un campo ancora  retrogrado sotto certi aspetti: tribune in cemento, assenza dei riflettori, divenuti effettivi solamente qualche decennio dopo l’epoca in cui si svolgeva il film. Tutto perfetto, insomma, reso ancor più magico dall’aggiunta nel cast, già di per sé stellare, di ulteriori “pezzi da novanta” come l’argentino Osvaldo Ardiles, il mito belga Paul Van Himst, l’ex-nazionale inglese Mike Summerbee e il fuoriclasse polacco Kazimierz Deyna.

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Le storture, ovviamente, non tardano ad arrivare. Il look, anzitutto, con taglio corto di capelli e acconciature trasandate per quelli che dovranno essere prigionieri di un campo nazista, proprio quando, specie in Gran Bretagna, regnava incontrastata la moda dei capelli lunghi. Ma ciò che forse non è andato giù a parecchi dei calciatori del cast fu l’aria da divo di Sly. Stallone, che interpreterà l’estremo difensore dei “prigionieri”, per farsi trovare preparato a recitare con le giusto movenze, fece ingaggiare nientemeno che Gordon Banks, mitico portiere della nazionale inglese di qualche decennio precedente. Dopo qualche giorno, Stallone sembrava già saperne più del veterano portiere inglese, al punto da farlo allontanare dal gruppo. Lo sostituirà il più umile portiere dell’Ipswich Paul Cooper (che agiva da controfigura a Stallone), più timido e introverso, per tentare di insegnargli i rudimenti base del ruolo di portiere. Il capitano Beattie racconterà: “Alla fine delle riprese si era rotto un dito (goffa respinta su un tiro di Pelé), incrinato due costole e lussato una spalla !”

Pretendeva, inoltre, di essere decisivo, non importava che fosse un portiere e che raramente si è visto nella storia del calcio un “goalkeeper” goleador. Pare sia stata un’idea di Pelè o di Bobby Moore quella di “inventarsi” la parata del rigore finale, che risultò comunque decisiva ai fine del risultato finale; eccoti accontentato, Sly!

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Oltretutto, l’attore hollywoodiano era solito pranzare in camera d’albergo, evitava tutti e disertava pranzi e cene di gruppo, dove si racconta che Pelè era uno dei più scatenati, e a fine serata non disdegnava di imbracciare la chitarra per intonare qualche canzone brasiliana. Forse anche troppe, a detta di Russel Osman, che dirà ” “ok la prima e la seconda … ma alla quarta o la quinta in parecchi trovavamo una scusa per defilarci !”.Senza tralasciare gli aneddoti tecnici, parola di Beattie: “Un giorno durante una pausa nelle registrazioni ci fermammo per fare una piccola merenda. Avevamo addosso tutti quegli enormi scarponi che usavamo come calzature da calcio. Ad un certo punto Pelé prese un’arancia e iniziò a palleggiare. La tenne su per almeno un quarto d’ora. Destro, sinistro, coscia, palleggiandola di testa e facendola scivolare sulla nuca per poi colpirla di tacco e continuare a palleggiare. Mai visto niente di simile in vita mia !” ricorda il capitano dell’Ipswich Town.

La rovesciata che culmina nella parte più emozionante del film, si racconta sia stata eseguita da Pelè al primo ciak, con lo stile e la perfezione di chi l’ha preparata e provata decine di volte. Unico neo, il pallone ….che non finì in rete. Infatti, sempre Osman racconterà:  “quell’idiota del nostro portiere di riserva Laurie Sivell che giocava in porta con i tedeschi, decise di PARARE la rovesciata di Pelé e così la scena della palla che finisce in fondo alla rete fu necessario aggiungerla in seguito !”

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L’inoppugnabile imperfezione di questo capolavoro è intrinseca nella sceneggiatura, basta chiederlo al suo sceneggiatore originale, l’americano di origini russe Yabo Yablonski, il quale si ispirò a fatti realmente accaduti in Polonia durante la seconda guerra mondiale. I soldati tedeschi sfidarono i prigionieri russi durante l’occupazione nazista di Varsavia.  I polacchi vinsero l’incontro ma furono in seguito fucilati. Semplice e concisa, era questa l’idea iniziale, senza considerare la “variabile” cioè lasciar vincere i tedeschi, aiutare la loro propaganda e avere salva la vita. Niente da fare, bisognava giocare la partita per vincerla sapendo che questa scelta sarebbe costata ai prigionieri la vita. Solo a riprese ultimate, Yablonski scoprirà, con enorme sorpresa, che la Paramount impose un radicale cambiamento, dettato probabilmente da imposte di copione. Ed ora tutti a cantare la marsigliese e a sperare che quel tunnel sotto la vasca non si porterà via i nostri eroi alla fine del primo tempo. Alla fuga ci penserà il popolo….

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Sergio Cecere

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I giovedì di Coppa delle Coppe

Nelle viscere delle coppe europee, da che mondo è mondo, le competizioni sono sempre state tre: Coppa Campioni, Coppa Uefa e Coppa delle Coppe. In ordine di importanza, non nell’ordine in cui veniva disputata la “settimana di coppe“. Sul TV Sorrisi e Canzoni potevi farti una cultura, dato che per tutte le gare, la Uefa il martedì, la Coppa Campioni il mercoledì, la Coppa Coppe il giovedì,  c’era una scheda con la ministoria del match, con tanto di esito dell’eventuale gara d’andata o di come si era arrivati a disputare quella gara, con in allegato la foto di uno dei protagonisti della squadra italiana impegnata nel match. La rinuncia alla Coppa delle Coppe, pertanto, è stata antesignana ad una serie di cambiamenti che hanno fatto storcere il naso a molti degli “amanti traditi” delle coppe europee.

La Coppa delle Coppe, venne creata nel 1960 dagli inglesi, il nome ufficiale era “UEFA Cup Winners’ Cup” abbreviato in “CWC” tradotto letteralmente in “coppa dei vincitori di coppa”, perchè era una competizione europea riservate alle vincitrici delle coppe nazionali.

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La Coppa delle Coppe era una competizione ad eliminazione diretta con turni di andata e ritorno fino alla finale unica, che si giocava in campo neutro.

La formula del torneo era uguale a quella della Coppa dei Campioni, il torneo si svolgeva da settembre a maggio, ed è stata vinta da 32 squadre diverse su 39 edizione disputate, il paese che ha vinto più volte il trofeo è l’Inghilterra con otto successi, mentre il club che si è aggiudicato più volte la Coppa delle Coppe è stato il Barcellona con quattro successi.

Sia la prima edizione che l’ultima sono state vinte da squadre italiane, la Fiorentina nel 61 vinse il trofeo contro i Rangers di Glasgow con una doppia vittoria, nella prima edizioni la finale si disputò con andata e ritorno, mentre nel 1999 la Lazio vinse l’ultima edizione, battendo 2 a 1 il Mallorca di Hector Cuper con reti di Vieri e Nedved nella finale giocata a Birmingham.

Dal 1973 al 1999, la squadra vincitrice della Coppa delle Coppe andava a disputare la finale di Supercoppa europea UEFA contro la vincitrice della Coppa dei Campioni/Champions League.

Dalla stagione 1999-2000, il trofeo venne assorbito dalla Coppa UEFA.

Johan Cruijff e Alex Ferguson sono gli unici due allenatori ad aver vinto la coppa con due squadre diverse, il profeta olandese ci riuscì con l‘Ajax nel 1987 nella finale vinta ad Atene contro i tedeschi del Lokomotive Lipsia per 1 a 0 con gol di un giovanissimo Marco Van Basten, alla sua ultima partita con gli olandesi prima di andare al Milan, (giocò la finale anche un giovane Frank Rijkaard), Cruijff trionfò anche nel 1989 alla guida del Barcellona a Berna contro la Sampdoria per 2 a 0, le due squadre si sarebbero poi incontrate di nuovo nel 1992 nella finale di Coppa dei Campioni giocata a Wembley.

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Il tecnico scozzese invece vinse il trofeo nel 1983 alla guida dell’ Aberdeen nella finale vinta 2 a 1 contro il Real Madrid a Goteborg, e nel 1991 con il Manchester United contro il Barcellona allenato proprio da Cruijff, vittoria per 2 a 1 grazie alla doppietta del gallese Mark Hughes, fu questo il primo successo internazionale per i club inglesi dopo la fine della squalifica di 5 anni inflitta dall’UEFA dopo la strage dell’Heysel.

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Anche Valerij Lobanovs’kyj vinse due volte il trofeo ma sempre alla guida della Dinamo Kiev, nel 75 contro gli ungheresi del Ferencváros per 3 a 0 e nel 86 contro l’Atletico Madrid per 3 a 0, una partita spettacolare dove gli ucraini dominarono dal primo all’ultimo minuto applicando alla perfezione tutti i concetti del “calcio scientifico” del generale Lobanovs’kyj.

Delle 8 vittorie delle squadre inglesi solo il Chelsea ha trionfato due volte, nel 71 e nel 1998 quando a regalare la coppa fu Gianfranco Zola che realizzò il gol vittoria contro lo Stoccarda allenato da Joachim Löw, dopo pochi secondi dal suo ingresso in campo, l’allenatore del Chelsea era Gianluca Vialli che ricopriva il doppio ruolo di allenatore-giocatore.

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Il Tottenham Hotspur vincitore nel 1963, è stato il primo club britannico a vincere un trofeo internazionale.

L’Everton nel 1985, vinse la Coppa delle Coppe e il campionato inglese nello stesso anno, le altre inglesi che hanno trionfato sono il West Ham nel 65, il Manchestrer City nel 70, e l’Arsenal nel 1994 che sconfisse il Parma campione in carica per 1 a 0 con un gol di Alan Smith.

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La Spagna ha vinto il trofeo 7 volte ma con solo tre squadre, quattro volte il Barcelona 1979, 1982, 1989, e nel 1997 con il trionfo sul Paris Saint-Germain per 1 a 0 con il gol della vittoria del “fenomeno” brasiliano Ronaldo.

Le altre squadre spagnole che hanno vinto sono state l’ Atletico Madrid nel 62, Valencia nel 80, e il Real Saragozza nel 1995, che sconfisse 2 a 1 l’Arsenal in finale con un gol dello spagnolo Nayim al 120 minuto dei supplementari con un pallonetto da centrocampo che superò il portiere inglese David Seaman.

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La rete del centrocampista è la più bella della storia della competizione tant’è nel 2006 il piccolo comune aragonese di Trasmoz gli ha dedicato una strada, Calle Gol de Nayim.

Il Real Madrid non è mai riuscito a vincere il trofeo perdendo due volte in finale nel 71 e nel 83 contro Chelsea e Aberdeen.

Anche l’Italia come la Spagna si è aggiudicata la competizione per sette volte, oltre a Fiorentina Lazio, che vinsero il trofeo nella prima e nell’ultima edizione, le altre italiane che hanno trionfato sono il Milan che vinse due volte nel 68 e nel 73, la Juventus nel 1984, e che avrebbe sollevato poi un anno dopo la Coppa dei Campioni, eguagliando il Milan, vincitore in Coppa delle Coppe nel 1968 e in Coppa dei Campioni nel 1969.

La Sampdoria conquistò la Coppa delle Coppe nel 1990 contro Anderlecht per 2 a 0 con doppietta di Gianluca Vialli nei tempi supplementari e l’anno dopo vinse lo scudetto, il Parma si aggiudicò la coppa nel 1993 nella finale di Wembley contro l’Anversa per 3 a 1.

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La Germania invece vinse il trofeo quattro volte, con il Borussia Dortmund nel 1966, Bayern Monaco 1967, Amburgo 1977 e il Werder Brema nel 1992.

Il Magdeburgo che vinse la Coppa delle Coppe nel 1974 per 2 a 0 contro il Milan, è stata la prima e unica squadra della Germania Est a vincere un titolo europeo.

Il Belgio ha vinto il trofeo due volte con l’Anderlecht nel 1976 e nel 1978, e uno con il Mechelen o Malines nel 1988 che vinse il trofeo da outsider alla sua prima partecipazione ad una competizione europea battendo in finale l’Ajax campione uscente per 1 a 0.

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L’Anderlecht inoltre è stato l’unico club a disputare tre finali consecutive nel 76, 77 e 78, perdendo la finale del 77 contro l’Amburgo.

Come il Belgio anche l’URSS ha vinto tre volte la coppa, due con la Dinamo Kiev e una con la Dinamo Tbilisi nel 1981 contro il Carl Zeiss Jena, squadra della Germania Est, per 2-1 nella finale di Dusseldorf.

Oltre al Aberdeen anche una altro club scozzese ha vinto la Coppa delle Coppe, il Glasgow Rangers che nel 1972 sconfisse nella finale di Barcellona i sovietici della Dynamo Mosca per 3 a 2, la finale fu oscurata dall’invasione di campo e dagli scontri provocati dai tifosi dei Rangers, il trofeo, per la prima volta fu consegnato negli spogliatoi e la UEFA squalificò il club scozzese per un anno dalle competizioni europee.

La Coppa delle Coppe resta per ora l’unico trofeo internazionale vinto dai francesi del Paris Saint-Germain, che vinsero nel 1996 nella finale di Bruxelles contro il Rapid Vienna per 1 a 0 con rete del futuro milanista Bruno N’Gotty.

Il trofeo è stato vinto anche dallo Sporting Lisbona nel 64, e lo Slovan Bratislava nel 69.

Nessun club è riuscito a vincere il trofeo per due volte consecutive, otto squadre hanno raggiunto la finale da campione in carica e perdendo, Fiorentina, Atletico Madrid, Milan, Anderlecht, Ajax, Parma, Arsenal, e Paris SG.

Inutile e superfluo ripetere quanto abbia significato questa competizione che, non solo dava importanza e di conseguenza maggiore interesse alla coppa nazionale, ma oltretutto avrebbe alleggerito un palinsesto dell’attuale Europa League, troppo spesso infervorata da una eccessiva presenza di compagini, alcune addirittura prive di particolare interesse per un evento che è divenuto estenuante e depauperante per le energie da conservare nel proprio campionato nazionale. Oltre al fascino, quindi, l’utilità di un interesse fervido che avrebbe potuto supportare economicamente le casse della Uefa in egual modo, senza per questo alterare e, nel contempo, mettere fine ad una coppa che ha fatto storia

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Clamoroso a Como, Hansi Muller ai Lariani!

Sulle sponde del meraviglioso Lago di Como si è intrapresa l’abitudine di sfornare ottimi giocatori e forgiarli, oltre che attraverso allenamenti specifici orchestrati da tecnici dal glorioso passato, anche da veri e proprio campioni. Dopo l’ascesa nella massima serie grazie alla meravigliosa cavalcata con in sella mister Burgnich, il Como si appresta ad affrontare la serie A 1984-85 con una squadra di futuri ottimi calciatori, con in panchina un giovane Ottavio Bianchi che spiccherà poi il volo verso Napoli e lo scudetto, con in rosa un tassello inaspettato, arrivato dall’Inter: l’estroso Hansi Muller.

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Già, proprio lui, il campione tedesco che non vuole più restare all’ombra di Beccalossi, pur consapevole di essere un gradino dietro per colpa di quel maledetto ginocchio che sarà purtroppo determinante nel giudizio complessivo della sua permanenza in Italia. Ma in squadra, come detto, c’è il futuro del calcio italiano, una “cantera” di calciatori che scriveranno pagine importanti. A partire dal portiere Giuliano Giuliani, le “rocce” difensive Enrico Annoni e Pasquale Bruno, il Jolly Marco de Marchi, “l’infiltrato” Luca Fusi, “la mente” Gianfranco Matteoli, centrocampisti di manovra come Luca Mattei e Giovanni Invernizzi, “il rifinitore” Egidio Notaristefano, assieme con la “certezza svedese” Dan Corneliusson. Una squadra in rampa di lancio, insomma.

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Eppure non fu un campionato semplice, la salvezza arrivò soltanto a poche giornate dal termine, e il contributo di Hansi non fu adeguato alle aspettative. Anzi, con un solo gol all’attivo, fu palese il fallimento della stagione nelle fila dei lariani. Ma scattò qualcosa con la gente e con l’ambiente. C’è da dire che Muller ha sempre saputo farsi apprezzare per le sue doti umane, era una persona che riusciva a tirar fuori il meglio dagli altri, anche da chi, come Beccalossi, lo vedeva come “il nemico“, sportivamente parlando. Lo dirà spesso nelle sue interviste, Evaristo, e lo stesso confermerà che il tedesco non ha mai storto il naso e ha sempre assecondato quel sano agonismo attraverso la competizione in grado di innescarlo.

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A Como però apprezzarono l’uomo più che il calciatore, anche attraverso un programma radiofonico che lanciò Muller nel mondo della musica e dei DJ, al punto da diventare un nome molto “gettonato” nell’ambiente, il tutto condito dal proverbiale “savoir faire” del tedesco, che addirittura imparerà forme dialettali comasche che gli consegnò quasi di diritto la chiave dei cuori lariani.

 

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Hrvoje Ćustić, un angelo caduto sul cemento

Non è dei muretti o del cemento che dovrebbe preoccuparsi un calciatore quando scende in campo. Non è certo delle sporgenze, delle imperfezioni, di campi arrangiati alla buona che un giocatore dovrebbe far caso quando scende in campo per la propria squadra per cercare di portare a casa il risultato, una buona prestazione, una speranza che possa aiutarlo ad emergere.

Hrvoje Ćustić era un attaccante venticinquenne, non un campione, ma un calciatore che si affacciava da qualche mese nella massima serie croata con la sua nuova squadra, l’NK Zadar, promossa appena l’anno prima. Venti presenze ed un gol per l’ex under 21 croato, magro bottino, ma che spera di rimpinguare con qualche altro gol nel finale di stagione, per guadagnarsi la riconferma e la permanenza nella massima serie, traguardo che vale una coppa per i tifosi dello Zadar.

Quel giorno, il 29 marzo 2008, si gioca una sfida important conto il Cibalia. Nei primi minuti di gioco del match, Custic gioca subito con foga per cercare di farsi spazio sulla fascia sinistra, per cerare di entrare nei pressi dell’aera di rigore. Vi trova di fronte un avversario che lo contrasta, spostandolo sulla linea di fallo laterale che delimita il campo. Nel contrasto, il giovane attaccante finisce contro il muro che costeggia il campo, sbattendo violentemente la testa.

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Il muro, in realtà, è pressoché mimetizzato dai cartelloni pubblicitari, tant’è vero che nelle immagini che si trovano in rete è davvero difficile immaginare la violenza dell’impatto che, purtroppo, si  subito constatato per i presenti durante l’incontro. Ambulanza in campo e trasporto immediato al primo ospedale di zona. Durante il ricovero, Custic è stato operato d’urgenza ma le sue condizioni sono subito apparse molto gravi. Dopo tre giorni di coma, giovedì ne è stata decretata la morte cerebrale.

Durante la coppa del Mondo nel 2018, il portiere della Croazia Subasic dedicherà le sue imprese al mondiale a quello sconosciuto attaccante. Una storia di dieci anni fa, quando i due militavano nello Zadar, ma che Subasic non ha mai dimenticato. Da quel giorno, il portiere indossa sotto la divisa una maglia con la foto del compagno. E sotto il cielo di Russia, ha potuto mostrarla al mondo. Dita al cielo, qualche lacrima e una gioia infinita, quella di poter finalmente ricordare sul palcoscenico più importante l’amico che non c’è più. Quell’amico che non è riuscito a saltare quel muro, colpevolmente posizionato sulla traiettoria sua e degli altri calciatori in campo. Se qualcuno si fosse preso la briga di giudicarlo altamente pericoloso, come lo si è potuto appurare soltanto a tragedia avvenuta, forse sarebbe riuscito a continuare la sua corsa verso quell’area di rigore che, oggi, rappresenta il continuo di una vita troppo giovane per essere stata così bruscamente spezzata. E Hrvoje non la raggiungerà mai più.

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Qui le immagini dell’incidente che è costato la vita a Custic:

 

 

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Io che volevo fermare Careca

Non mi sembrava vero. Non era uno di quei giorni noiosi in cui mio padre mi trascinava con lui in estenuanti giornate di lavoro a sollevare,mantenere, spostare, montare o smontare mobili, porte, e tutto ciò che somigliasse anche solo vagamente al legno. Per inciso, oggi pagherei per un altro giorno ancora in cui mi venisse a pescare in qualche campetto di calcio per “costringermi” ad andare con lui. Ma tant’è. Quel giorno, quel dodicenne annoiato aveva realizzato di essere al cospetto di un tempio, a pochi metri da un sogno, il luogo dove si allenavano gli azzurri, il Centro Paradiso di Soccavo. Colpo di fortuna, accompagnavo mio padre sul luogo di lavoro ubicato di fronte al centro sportivo in cui si allenano i miei campioni. Segno del destino? Chissà, sicuramente una occasione da non perdere.

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Mi affacciavo al calcio e alla passione per il Napoli soltanto da pochi anni, avendo vissuto poco il primo scudetto dell’87, intensamente il secondo del ’90. Tra i due eventi, lo sviluppo e le fondamenta di un amore sviscerato e travolgente. Successe di trovarmi a Soccavo l’anno dopo l’addio doloroso di Diego, era il ’92, squadra affidata a Claudio Ranieri, grandi nomi ancora in rosa, Blanc acquisto di grido,  Zola in rampa di lancio, Silenzi e Padovano a completare l’attacco con Careca, Alemao e De Napoli in fase calante, Ferrara Galli Francini e Crippa ancora in orbita nazionale. Insomma, una squadra di tutto rispetto.

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Decisi di inoltrarmi verso il viale che portava al mitico “portone azzurro” nel primo pomeriggio, approfittando dell’ora di pranzo e della tranquillità degli attimi che anticipavano l’orario degli allenamenti. Era socchiuso, ma l’incoscienza dell’età mista all’adrenalina mi spinsero ad intrufolarmi come nulla fosse. Feci dieci metri di quella famosa “salitina” che portava alla rete di recinzione del campo d’allenamento, e mi bloccai. Non c’erano molte persone, soprattutto non c’erano controlli che potessero vedermi, se non in lontananza, per cui mi nascosi in modo da non attirare l’attenzione. C’era qualcuno in campo, forse gli inservienti, probabilmente qualche giovane della primavera. E c’era un fotografo che scattava istantanee ad un ragazzino minuto, piccolo di statura, sembrava bravo con la palla al piede. D’un tratto si siede sul pallone per scattare forse l’immagine di repertorio di quello che probabilmente sarebbe stato un servizio fotografico per chissà chi.

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Quel ragazzotto “mingherlino” era Gianfranco Zola, che si apprestava a posare per un servizio per l’allora rivista sportiva del Napoli Supersport 2000, del quale ero assiduo lettore. Qualche settimana dopo avrei ritrovato quelle foto, peccato non mi si veda in lontananza! Proprio nell’attimo in cui realizzavo chi avessi di fronte, uno dei magazzinieri mi “becca” e mi porta fuori all’uscita del “portone del paradiso“. Porca miseria, fine di un sogno. Sull’uscio dell’ingresso al centro, mi fermo ad aspettare, come da lì a poco avrebbero fatto altre decine di persone, l’arrivo dei giocatori. Ma mi toccava rientrare a dare una mano a mio padre, altrimenti sarebbero stati dolori. Appuntamento però a fine allenamento, quando anche noi eravamo agli sgoccioli della nostra giornata di lavoro. “Posso andare, hanno quasi finito!“. Papà annuisce. Scappo via, fino al famigerato”portone azzurro“. Qualcuno è già andato via, altri sono ancora dentro. Magari sono fortunato, magari si ferma uno dei miei preferiti. Usciranno in molti, ma io volevo che si fermasse il più grande attaccante che io abbia mai visto in vita mia. Volevo fermare Careca, volevo guardarlo per qualche secondo da vicino, magari un autografo, si, ma avrei voluto parlargli, come si potrebbe fare con un passante sconosciuto a cui confidi un segreto senza un motivo particolare.

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Eccolo uscire, aveva un Audi 80 nera, ho subito capito che non si sarebbe fermato facilmente perché la sua auto è stata subito presa d’assalto dagli altri tifosi che lo hanno riconosciuto, pertanto ho pensato bene di spingermi un po’ più in avanti col corpo nella speranza di frenare il suo impeto. Nulla di più sbagliato, Antonio è sfrecciato incurante di chi si affacciasse verso la sua auto, tanto che con la mia anca gli ho rotto lo specchietto, che è penzolato sulla portiera senza per questo essere motivo per cui si potesse fermare. Magari lo avesse fatto. Ha continuato la sua corsa ed è andato via, spaventandomi per l’accaduto e deludendomi per non aver realizzato il sogno di un ragazzino che aveva immaginato di poter fermare il grande Careca. Posso soltanto raccontare di avergli rotto lo specchietto dell’auto, mica poco!

Ecco alcune immagini tratte da uno degli allenamenti di quell’epoca: